I "Moomins" (o "Mumins" come in traduzione italiana) sono dei simpatici protagonisti di strisce a fumetti realizzati dalla svedese/finlandese Tove Jansonn (1914 - 2001). Presto il loro successo si allargò un po' in tutta Europa, e infine al di fuori; furono realizzati anche cartoni animati dei Moomins, e a breve è in arrivo un film in 3D (qui il trailer).
Mi sono imbattuta in Tove Jansonn per caso, dato che non ho mai letto storie dei "Moomins" (ma può darsi che li abbia intravisti in qualche vecchissimo numero di "Linus", dove furono pubblicati negli anni...). La Jansonn a quanto pare non era una di quelle persone che usa la parola "lesbica" per definirsi (se ne accenna qui) - ma mi piacerebbe leggere una biografia più approfondita di questa autrice che sembrava stare "a suo agio con le minoranze", come scrive Michele Serra su "Linus" di maggio; non nascondeva però il legame che la legò per una vita alla grafica Tuulikki Pietilä che l'aiutò anche nel lavoro di sviluppo e cura del "mondo" dei "Moomins" (pupazzi, illustrazioni, ecc.).
Forse era una di quelle persone la cui parola "lesbica" sembra riduttiva rispetto a una concezione libera della sessualità, o forse non voleva essere "arruolata" nelle prime battaglie del movimento gay internazionale, e dedicarsi esclusivamente al suo lavoro (ormai assunto a classico nel suo paese): chi può dirlo?
Comunque molte foto che la ritraggono a diverse età mi sembra siano più che eloquenti!
La sua omosessualità traspare anche in minima parte nel suo lavoro fumettistico, magari sottotraccia, come sensibilità? Io non posso dire nulla - come già detto non conosco le sue opere - ma qualcuno qui azzarda di sì, che il modo di tratteggiare certe relazioni tra alcuni personaggi sia un po' "queer" - e immagino che solo chi ha una certa sensibilità possa accorgersi di questo, (se presente nelle storie dei "Moomins").
In rete ho trovato un paio di siti con un paio di tavole del fumetto in questione: qui e qui, giusto per dare un'idea.
In Italia la Black Velvet sta traducendo l'edizione integrale curata dalla casa editrice Drawn & Quarterly, e si può trovare in vendita il primo volume ( e qui si possono scaricare le prime 4 pagine in Pdf), "Mumin e i briganti".
Infine linko un articolo di Paul Gravett, curatore di una grande mostra su Tove Jansonn l'anno scorso a Bruxelles: ci sono molte foto (come quella che si vede qui sopra a destra) e molte informazioni.
sabato 29 maggio 2010
martedì 25 maggio 2010
Voglia di genitorialità
Lo confesso, fino a non molto tempo fa facevo parte della nutrita schiera dei dubbiosi rispetto al desiderio (ed eventuale diritto) delle coppie gay e delle lesbiche di poter crescere dei figli (naturali o adottati).
Non è facile liberarsi dai pregiudizi dovuti all'essere cresciuti in una società come la nostra, dominata dal paradigma eterosessuale e patriarcale veicolato da secoli dalla Chiesa cattolica - con tutto quel che ne consegue. Crescere e respirare in quest'ambiente culturale vuol dire assimilare per osmosi, senza neanche rendersene conto, pregiudizi e falsi miti; solo una forte personalità, o una volontà di conoscere e capire, o anche un ambiente liberale possono contrastare la tendenza al conformismo delle idee.
Il desiderio di paternità e maternità di gay e lesbiche (lesbiche più che altro) iniziava già a farsi strada un po' di anni fa, lentamente e in sordina, mentre magari erano guardati con diffidenza primariamente dagli stessi omosessuali che non capivano questa esigenza - che oltretutto avrebbe comportato ostacoli mostruosi, e probabilmente - si diceva - avrebbe reso difficile la vita a questi figli che sarebbero stati certamente ostracizzati a scuola, ecc.
Questo argomento nel secolo scorso veniva usato rispetto ai figli delle coppie miste nell'America dell'emancipazione dei neri, appena avvenuta, e quindi ancora impreparata - si diceva - ad accogliere questa sconvolgente novità.
Nel caso delle adozioni tanti anni fa Giovanni Dall'Orto (il suo sito si trova tra i links a lato) diceva che i gay non potevano pretendere questo "diritto", in quanto il solo diritto è quello dei bambini ad essere adottati - bambini che avrebbero trovato difficoltà ad essere accettati in questo tipo di società, e tutto per le esigenze egoistiche dei genitori...
Non è un argomento da sottovalutare, certo, ma come trattare allora i numerosi casi dei bambini figli di genitori divorziati che poi creano nuove famiglie con persone dello stesso sesso? Ogni nostro comportamento è passibile di essere "egoistico", qualsiasi comportamento che si discosti dalla "normalità sociale" lo è: per questo deve essere a priori considerato riprovevole?
In altri stati, negli USA in special modo, da tempo questi bambini in teoria svantaggiati crescono all'interno di famiglie gay e vanno a scuola, e ci sono studi ormai di decenni che dimostrano che i figli in questione non hanno incontrato più difficoltà della media degli altri bambini, anzi.
Per chi voglia approfondire la questione c'è un libro abbastanza recente (e che presenta dati più aggiornati) scritto da Chiara Lalli, "Buoni genitori". A questo link si può trovare un'esaustiva intervista all'autrice, che da tempo interviene spesso nei dibattiti a favore dei diritti degli omosessuali e che ne scrive (anche) nel blog "Bioetica" a cui collabora.
A parte gli studi e le nostre remore personali bisogna mettere in conto anche le esperienze: conosco almeno un paio di coppie lesbiche che hanno figli ormai cresciuti che non hanno avuto problemi particolari con i loro figli, che sono normalissimi. Come loro da tempo in Italia ci sono tantissime famiglie omogenitoriali che hanno deciso di costituirsi in associazione, sono le Famiglie Arcobaleno. e un documentario sta per uscire sull'esperienza di due coppie omosessuali alle prese con la genitorialità: una cobbia di lesbiche che sta già crescendo tre figli, e una coppia di gay che sta cercando una madre surrogata (argomento che suscita un nuovo genere di domande, e il dibattito è infatti aperto). Il documentario si chiama "Il lupo in calzoncini corti" ed è in fase di postproduzione; per chi volesse sostenere l'iniziativa, che è andata avanti proprio grazie all'apporto di finanziatori esterni, qui c'è il link.
I bambini di coppie gay si pensa che possano trovare qualche difficoltà a scuola, ad esempio, stante che il livello medio delle famiglie etero potrebbe essere quello che si vede in trasmissioni come queste (che, non dimentichiamolo, vengono viste da milioni di italiani): suggerisco di leggere anche i commenti lasciati su Queerblog perchè certe argomentazioni sono molto interessanti.
In realtà i bambini in genere spesso hanno risorse che neanche ci aspettiamo, ma i figli di coppie gay in particolare vengono cresciuti ed educati ad avere rispetto per se stessi e la loro famiglia, ad avere anche una forza che spesso, nelle ricerche che si fanno su di loro si trasforma in una maggiore maturità ed equilibrio.
Io personalmente non ho mai avuto alcun istinto alla maternità, alcun desiderio cosciente o incosciente: troppo presa dai miei problemi, dalla mie mancanze. Le donne lesbiche che ho sentito avere questa esigenza invece erano molto sicure e forti, motivate e consapevoli, senza alcun dubbio più di certe donne etero che i figli - a volte - li fanno per seguire la norma sociale, per sentirsi "realizzate": e si vede poi nel modo in cui vengono cresciuti, questi figli...
Non è facile liberarsi dai pregiudizi dovuti all'essere cresciuti in una società come la nostra, dominata dal paradigma eterosessuale e patriarcale veicolato da secoli dalla Chiesa cattolica - con tutto quel che ne consegue. Crescere e respirare in quest'ambiente culturale vuol dire assimilare per osmosi, senza neanche rendersene conto, pregiudizi e falsi miti; solo una forte personalità, o una volontà di conoscere e capire, o anche un ambiente liberale possono contrastare la tendenza al conformismo delle idee.
Il desiderio di paternità e maternità di gay e lesbiche (lesbiche più che altro) iniziava già a farsi strada un po' di anni fa, lentamente e in sordina, mentre magari erano guardati con diffidenza primariamente dagli stessi omosessuali che non capivano questa esigenza - che oltretutto avrebbe comportato ostacoli mostruosi, e probabilmente - si diceva - avrebbe reso difficile la vita a questi figli che sarebbero stati certamente ostracizzati a scuola, ecc.
Questo argomento nel secolo scorso veniva usato rispetto ai figli delle coppie miste nell'America dell'emancipazione dei neri, appena avvenuta, e quindi ancora impreparata - si diceva - ad accogliere questa sconvolgente novità.
Nel caso delle adozioni tanti anni fa Giovanni Dall'Orto (il suo sito si trova tra i links a lato) diceva che i gay non potevano pretendere questo "diritto", in quanto il solo diritto è quello dei bambini ad essere adottati - bambini che avrebbero trovato difficoltà ad essere accettati in questo tipo di società, e tutto per le esigenze egoistiche dei genitori...
Non è un argomento da sottovalutare, certo, ma come trattare allora i numerosi casi dei bambini figli di genitori divorziati che poi creano nuove famiglie con persone dello stesso sesso? Ogni nostro comportamento è passibile di essere "egoistico", qualsiasi comportamento che si discosti dalla "normalità sociale" lo è: per questo deve essere a priori considerato riprovevole?
In altri stati, negli USA in special modo, da tempo questi bambini in teoria svantaggiati crescono all'interno di famiglie gay e vanno a scuola, e ci sono studi ormai di decenni che dimostrano che i figli in questione non hanno incontrato più difficoltà della media degli altri bambini, anzi.
Per chi voglia approfondire la questione c'è un libro abbastanza recente (e che presenta dati più aggiornati) scritto da Chiara Lalli, "Buoni genitori". A questo link si può trovare un'esaustiva intervista all'autrice, che da tempo interviene spesso nei dibattiti a favore dei diritti degli omosessuali e che ne scrive (anche) nel blog "Bioetica" a cui collabora.
A parte gli studi e le nostre remore personali bisogna mettere in conto anche le esperienze: conosco almeno un paio di coppie lesbiche che hanno figli ormai cresciuti che non hanno avuto problemi particolari con i loro figli, che sono normalissimi. Come loro da tempo in Italia ci sono tantissime famiglie omogenitoriali che hanno deciso di costituirsi in associazione, sono le Famiglie Arcobaleno. e un documentario sta per uscire sull'esperienza di due coppie omosessuali alle prese con la genitorialità: una cobbia di lesbiche che sta già crescendo tre figli, e una coppia di gay che sta cercando una madre surrogata (argomento che suscita un nuovo genere di domande, e il dibattito è infatti aperto). Il documentario si chiama "Il lupo in calzoncini corti" ed è in fase di postproduzione; per chi volesse sostenere l'iniziativa, che è andata avanti proprio grazie all'apporto di finanziatori esterni, qui c'è il link.
I bambini di coppie gay si pensa che possano trovare qualche difficoltà a scuola, ad esempio, stante che il livello medio delle famiglie etero potrebbe essere quello che si vede in trasmissioni come queste (che, non dimentichiamolo, vengono viste da milioni di italiani): suggerisco di leggere anche i commenti lasciati su Queerblog perchè certe argomentazioni sono molto interessanti.
In realtà i bambini in genere spesso hanno risorse che neanche ci aspettiamo, ma i figli di coppie gay in particolare vengono cresciuti ed educati ad avere rispetto per se stessi e la loro famiglia, ad avere anche una forza che spesso, nelle ricerche che si fanno su di loro si trasforma in una maggiore maturità ed equilibrio.
Io personalmente non ho mai avuto alcun istinto alla maternità, alcun desiderio cosciente o incosciente: troppo presa dai miei problemi, dalla mie mancanze. Le donne lesbiche che ho sentito avere questa esigenza invece erano molto sicure e forti, motivate e consapevoli, senza alcun dubbio più di certe donne etero che i figli - a volte - li fanno per seguire la norma sociale, per sentirsi "realizzate": e si vede poi nel modo in cui vengono cresciuti, questi figli...
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giovedì 20 maggio 2010
Anne Holt e la serie con l'ispettrice (lesbica) Wilhelmsen
Nel 1999 uscì in libreria un libro dell'allora sconosciuta Anne Holt: "Sete di giustizia", edito all'interno della giovane collana dedicata ai gialli e ai noir della Hobby & Work.
Probabilmente ne lessi notizia da qualche parte, e l'accenno all'"ispettrice di polizia lesbica Hanne Wilhelmsen"- protagonista della storia - risvegliò il mio interesse.
Il libro presenta una seconda parte abbastanza dura, cruda, perchè si parla di stupro, e di vendetta. Tuttavia la parte in cui si parla dellle paure di Hanne Wilhelmsen, del suo temere la reazione di amici e colleghi una volta scoperta la sua convivenza e relazione con una donna, be', l'ho trovata perfetta: la descrizione dei suoi sentimenti più intimi, la trepidazione, la paura esagerata (che bella la scena in cui si rivela - attesa da tempo! - al suo amico) - sono le "riluttanze" che riconosco, e ripercorro con stupida nostalgia: chi vorrebbe ancora rivivere quei momenti in cui per prima cosa abbiamo paura di noi stesse?
Sapendo che il libro in Norvegia era apparso in una serie con protagonista il commissario in questione speravo arrivassero in Italia altre traduzioni. In realtà non si è più visto nulla di Anne Holt fino alla pubblicazione di "Quello che ti meriti" nel 2008 (con Einaudi) che fu un successo, inserito nell'onda dei best seller nordici. Qui tuttavia i protagonisti sono una coppia di detective - lui e lei, abbastanza etero se non sbaglio - così come nei 2 libri seguenti.
Il mese scorso invece è riapparsa Hanne Wilhelmsen in "La dea cieca". Certi ormai della fama della Holt la Einaudi ha cominciato (credo) a pubblicare la saga della "mia" ispettrice lesbica partendo dal primo volume ("Sete di giustizia" è il secondo della serie).
Aspetterò di comprare il libro una volta raggiunta l'edizione economica; mica per altro, lo stile della Holt mi pareva passabile in "Sete di giustizia", ma dei seguenti libri pubblicati in Italia ho provato a leggerne uno abbandonandolo per noia dopo una trentina di pagine!
Probabilmente ne lessi notizia da qualche parte, e l'accenno all'"ispettrice di polizia lesbica Hanne Wilhelmsen"- protagonista della storia - risvegliò il mio interesse.
Il libro presenta una seconda parte abbastanza dura, cruda, perchè si parla di stupro, e di vendetta. Tuttavia la parte in cui si parla dellle paure di Hanne Wilhelmsen, del suo temere la reazione di amici e colleghi una volta scoperta la sua convivenza e relazione con una donna, be', l'ho trovata perfetta: la descrizione dei suoi sentimenti più intimi, la trepidazione, la paura esagerata (che bella la scena in cui si rivela - attesa da tempo! - al suo amico) - sono le "riluttanze" che riconosco, e ripercorro con stupida nostalgia: chi vorrebbe ancora rivivere quei momenti in cui per prima cosa abbiamo paura di noi stesse?
Sapendo che il libro in Norvegia era apparso in una serie con protagonista il commissario in questione speravo arrivassero in Italia altre traduzioni. In realtà non si è più visto nulla di Anne Holt fino alla pubblicazione di "Quello che ti meriti" nel 2008 (con Einaudi) che fu un successo, inserito nell'onda dei best seller nordici. Qui tuttavia i protagonisti sono una coppia di detective - lui e lei, abbastanza etero se non sbaglio - così come nei 2 libri seguenti.
Il mese scorso invece è riapparsa Hanne Wilhelmsen in "La dea cieca". Certi ormai della fama della Holt la Einaudi ha cominciato (credo) a pubblicare la saga della "mia" ispettrice lesbica partendo dal primo volume ("Sete di giustizia" è il secondo della serie).
Aspetterò di comprare il libro una volta raggiunta l'edizione economica; mica per altro, lo stile della Holt mi pareva passabile in "Sete di giustizia", ma dei seguenti libri pubblicati in Italia ho provato a leggerne uno abbandonandolo per noia dopo una trentina di pagine!
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Perchè "lesbica riluttante"
Perché "lesbica riluttante"?
Sono sicura che quasi nessuna lesbica sotto i 30 anni userebbe mai l'aggettivo "riluttante" per definirsi; magari "non dichiarata" - e magari solo al lavoro (o il contrario, dichiarata al lavoro e non in famiglia).
La "riluttanza" quindi indica uno stato d'animo del tutto personale e in un certo senso disgiunto da ciò che sono pubblicamente: molti miei parenti sanno che sono lesbica, e molti miei colleghi, nonché tutti gli amici (quelli veri) e molti conoscenti. Molti, non tutti (parlerò delle motivazioni di questa situazione più in là, in post successivi magari).
Bisognerebbe immaginare una timida, repressa, ingenua ragazza cresciuta a cavallo tra anni settanta e ottanta del secolo scorso per capire il significato della parola "riluttanza" - un misto di sensi di colpa, odio di sé, orgoglio, consapevolezza che lentamente negli anni si è trasformata in serena accettazione.
Ma sapete com'è, anni e anni di ferite non possono essere cancellate facilmente; quello che siamo stati lo portiamo in noi non solo come ricordo, ma come sostrato di quello in cui poi ci siamo trasformati.
Le cicatrici rimangono; sotto pelle, invisibili agli altri e, vogliamo scommettere (ma non dovremmo), anche a noi stessi.
Una parte di me vorrebbe un giorno riunire il blog "B" al blog "A" (che parla di tutt'altro), un'altra parte lo ritiene inutile e controproducente (sono una persona molto pratica), un'altra parte ancora cerca di non desiderare e immaginare perchè sa che vivere alla giornata è la sola filosofia di vita a cui pensa di essere pervenuta in quasi 50 anni.
Un altro significato dell'aggettivo "riluttante" è quello riferito alla mia vita sociale e sentimentale - pressocchè nulle. Dopo anni di frequentazioni dell'"ambiente" e anni di tentativi di approcci sentimentali falliti al 99% (e l'1 riuscito me lo son fatto bastare) direi che "riluttante" serve a descrivere il mio possibile riavvicinamento (se ci fosse l'occasione) a queste due sfere dell'interagire umano.
Tuttavia mi concedo ogni anno una sortita al Gay Pride e qualche giornata al Festival del Cinema Gay - occasioni per salutare e rivedere persone che ormai non incontro più nei luoghi frequentati una volta (locali, associazioni, feste).
Sono sicura che quasi nessuna lesbica sotto i 30 anni userebbe mai l'aggettivo "riluttante" per definirsi; magari "non dichiarata" - e magari solo al lavoro (o il contrario, dichiarata al lavoro e non in famiglia).
La "riluttanza" quindi indica uno stato d'animo del tutto personale e in un certo senso disgiunto da ciò che sono pubblicamente: molti miei parenti sanno che sono lesbica, e molti miei colleghi, nonché tutti gli amici (quelli veri) e molti conoscenti. Molti, non tutti (parlerò delle motivazioni di questa situazione più in là, in post successivi magari).
Bisognerebbe immaginare una timida, repressa, ingenua ragazza cresciuta a cavallo tra anni settanta e ottanta del secolo scorso per capire il significato della parola "riluttanza" - un misto di sensi di colpa, odio di sé, orgoglio, consapevolezza che lentamente negli anni si è trasformata in serena accettazione.
Ma sapete com'è, anni e anni di ferite non possono essere cancellate facilmente; quello che siamo stati lo portiamo in noi non solo come ricordo, ma come sostrato di quello in cui poi ci siamo trasformati.
Le cicatrici rimangono; sotto pelle, invisibili agli altri e, vogliamo scommettere (ma non dovremmo), anche a noi stessi.
Una parte di me vorrebbe un giorno riunire il blog "B" al blog "A" (che parla di tutt'altro), un'altra parte lo ritiene inutile e controproducente (sono una persona molto pratica), un'altra parte ancora cerca di non desiderare e immaginare perchè sa che vivere alla giornata è la sola filosofia di vita a cui pensa di essere pervenuta in quasi 50 anni.
Un altro significato dell'aggettivo "riluttante" è quello riferito alla mia vita sociale e sentimentale - pressocchè nulle. Dopo anni di frequentazioni dell'"ambiente" e anni di tentativi di approcci sentimentali falliti al 99% (e l'1 riuscito me lo son fatto bastare) direi che "riluttante" serve a descrivere il mio possibile riavvicinamento (se ci fosse l'occasione) a queste due sfere dell'interagire umano.
Tuttavia mi concedo ogni anno una sortita al Gay Pride e qualche giornata al Festival del Cinema Gay - occasioni per salutare e rivedere persone che ormai non incontro più nei luoghi frequentati una volta (locali, associazioni, feste).
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